Land of Prayer Alias

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Land of Prayer Alias

di Emma Ercoli

 

 

Quando prego dialogo in modo pazzo, infantile o serissimo con la parte più profonda di me…Io riposo in me stessa.
E quella parte di me, la parte più profonda e la più ricca in cui riposo, è ciò che chiamo “Dio”1
Etty Hillesum

 

 

 

Dopo aver attraversato il flusso dinamico della rete con Land of Prayer (dicembre 2011 – febbraio 2013) D’Alonzo approda ora con Land of Prayer Alias nello spazio fisico di una galleria d’arte. L’attuale mostra può considerarsi dunque la prima metamorfosi di un’opera che si snoda su tre piattaforme: la rete, la galleria e un terzo progetto che prevede entro il prossimo anno la pubblicazione di un volume. La prima realizzazione di questo trittico ideale, Land of Prayer, è sullo schermo di un computer, terra di preghiera in uno spazio di rete, luogo di raccoglimento in un ambiente digitale. Navigando in rete – scrive A. Abruzzese – tra link che occhieggiano ai margini e dentro ogni pagina, accade che di continuo si perda la retta via – il fine e il mezzo- e ci si imbatta in terre e relitti di terre.2 E l’incontro sul web con questa terra di preghiera concede l’accesso a un luogo “altro”, che raramente frequentiamo nel nostro vivere quotidiano dove un incessante muoversi e la tendenza all’autoreferenzialità lasciano poco spazio a un vero ascolto, rendendo molto difficile percepire ciò che siamo. Con Land of Prayer Alias D’Alonzo rinnova in un luogo deputato del sistema dell’arte il suo invito a entrare in una dimensione diversa. L’invito è a fermarsi, a stare, a dimorare nella consapevolezza. L’opera è una meditazione che si snoda lungo le sale bianche dello Studio d’arte contemporanea Pino Casagrande, dove le note di un cembalo che si sviluppano in loop guidano verso l’esperienza dell’immersione in se stessi. Un percorso che prevede di uscire dal rumore incessante della mente discorsiva, per poter approdare a una percezione più unitaria e dunque a una connessione profonda, a sentirsi terra di preghiera, preghiera intesa come pura contemplazione. Land of Prayer Alias è un richiamo alla coltivazione di un naturale spirito di accoglienza, di intimità, uno spazio interiore che si nutre di una fede intesa non come credenza o riferimento a dogmi. Il termine Saddha, tradotto in genere dalla lingua Pali con fede-fiducia è forse il più adatto per esprimere questo senso di apertura che conduce alla calma di una mente silenziosa, capace di presenza e di ascolto. Saddha – afferma S. Salzberg – è un verbo che letteralmente significa porre il cuore su: “la fede non è uno stato particolare che abbiamo o non abbiamo ma qualcosa che facciamo…Saddha è la volontà di fare il passo successivo, di vedere l’ignoto come un’avventura, di intraprendere un viaggio”.3 Nel Dhammapada la fede viene infatti definita come slancio verso l’indicibile.4 La presenza mentale che guida in questo viaggio interiore è un tipo di attenzione intensa, senza movente, gratuita. Una presenza che conduce oltre l’involucro dei concetti e dell’identità, delle convenzioni e dei condizionamenti del linguaggio, fino a fare il vuoto di ogni presunto sapere. La preghiera, meditazione -scrive C. Pensa- è una forma di svuotamento, ossia di graduale abbandono di tutto quanto in noi fa da schermo all’esperienza dell’unità… Dove c’è svuotamento profondo, e soltanto in questo caso, può darsi reale compassione. 5 Sulla parete di fondo della galleria un proiettore fa rivivere le sequenze che in Land of Prayer animavano la superficie pulsante dello schermo del computer. Sembrano quinte di un teatro i due diaframmi neri che lentamente si aprono per lasciare spazio a un gioco inesauribile di forme: costellazioni, pulviscolo, macerie, continuo occhieggiare di bianco e nero in un incessante alternarsi di buio e lampi di luce. Avvolti nella melodia perdiamo il senso del tempo, inghiottiti nell’abisso dell’ oscurità e risvegliati da improvvisi bagliori che ci proiettano di nuovo in superficie. Sulla parete opposta D’Alonzo espone un trittico, un dipinto ad olio su finta pelle, dove lo stesso misterioso intreccio di forme in movimento tra l’oscurità e la luce del video si distende su una superficie che sembra offrire un momentaneo sollievo alla nostra ansia di fissare e interpretare. Ma il groviglio di linee rosse tracciate dal pennello sembra estendersi oltre i limiti della cornice, riproponendo un senso di indeterminatezza e di provvisorietà. Le due opere ai lati opposti della stanza non creano contrapposizione. Non c’è da una parte il piano pittorico che – come indica R. Krauss – è stato per molti secoli “la pietra angolare della specificità”6, e dall’altra la proiezione nelle sale di una galleria di un’opera che si è sviluppata in uno spazio di rete. L’intero processo creativo si svolge nell’ambito di un’ esperienza inclusiva, in un continuo mettere in relazione. Sul pavimento, al centro della stanza, D’Alonzo ha collocato uno “zerbino” intarsiato che va da parete a parete. L’attraversamento di questo “tappeto”, soglia al contempo fisica e mentale, sottolinea un’intenzione di apertura verso uno spazio di silenzio interiore profondo. L’artista si rivolge a un pubblico non di spettatori ma di “utenti”, fruitori, di invitati ai quali chiede di abitare le sue opere. A partire dalla performance Jo em confesso, del 2003, proseguendo con Land of Prayer ( 2011-2013) negli ambienti comunicativi del web, fino all’attuale Land of Prayer Alias nello spazio fisico di una galleria d’arte, D’Alonzo ha orientato i suoi progetti verso pratiche partecipative, attivando processi di condivisione. Nel suo “spostamento” da una piattaforma all’altra tesse fili diversi attraversando confini sempre più labili di ambienti dove non esiste più una vera distinzione tra il fisico e il virtuale. Un’altra sala della galleria ospita un’opera a parete realizzata con gessetti e intagli su tela dove si condensano linguaggi e dinamiche delle altre piattaforme. L’autore ha impresso sulla tela di un lenzuolo alcune parole chiave estrapolate dai testi che costituivano il palinsesto digitale di scritture in Land of Prayer. Nel sito la fruizione dei testi è resa volutamente non semplice. Interventi grafici, lettere troppo grandi, tutto contribuisce a renderli una scrittura più visuale che logica. 7 Adesso l’artista interviene su alcune parole con tecniche di cancellazione e stratificazione, finché sulla superficie saturata di segni rimangono soltanto tracce di scrittura. Tutto il percorso di Land of Prayer Alias è intessuto di tracce, impronte silenziose, orme di una presenza-assenza. L’artista sembra rispondere all’esigenza di intervenire sulla scrittura come per resistere a una forma di chiusura, per andare oltre qualcosa che impedisce un incontro diretto con l’essenza delle cose stesse. L’opera evoca il graffito, la tavoletta di cera, la pietra di granito incisa e consumata dal tempo. La luminescenza ottenuta con l’uso di gessetti e abrasioni fa pensare alla superficie luminosa dello schermo. Trascrizione di frammenti e rimozione, perdita e ricostruzione. Il mondo delle parole, il mondo delle cose, si polverizza sulla tela e nelle sequenze dell’animazione digitale, per illuminarsi nell’ampio respiro di un territorio di preghiera che attraversa le frontiere dell’appartenenza e dell’identità. Un territorio che è convergenza tra piano pittorico, spazio di proiezione e schermo del computer, oltre i confini rigidi della specificità, in una continua reinvenzione del medium.

 

 

1 Etty Hillesum, Diario 1941 – 1943, Adelphi , Milano, 1996
2 Alberto Abruzzese Cecità, https://www.gianfrancodalonzo.net/land-of-prayer/testo-abruzzese.html
3 Sharon Salzberg, Fede, Ubaldini, Roma, 2003
4 Corrado Pensa, La Tranquilla Passione, Ubaldini, Roma, 1994
5 Corrado Pensa, Neva Papachristou, Dare il cuore a ciò che conta, Mondadori, Milano, 2012
6 Rosalind Krauss, Reinventare il medium, Mondadori, Milano, 2005
7 Luisa Valeriani, Disturbo,   https://www.gianfrancodalonzo.net/land-of-prayer/testo-valeriani.html

 

 

 

 

 

 

 

ALIAS

di Franco Speroni

 

 

                                                                                                                      

Io so che senza me Dio non può vivere un attimo. Se io mi annullo, deve di necessità esalare lo spirito.
Angelus Silesius, Pellegrino cherubico, I, 8, 1648

 

 

 

“Alias” è un avverbio latino che indica un altro modo di dire o di fare una medesima cosa. Come tutti gli avverbi, in parte modifica e precisa il significato predicato da verbi o specificato da aggettivi e quindi è sempre connesso con un’altra configurazione di senso nella quale risiede il significato originario. Nella nostra esperienza di utenti digitali, poi, “alias” è venuto ad indicare il file più leggero che teniamo provvisoriamente sullo schermo del computer mentre stiamo lavorando su un determinato argomento. Non è la “copia”, che manterrebbe lo stesso peso del file originale, bensì un’apparenza utile per agire su dei contenuti che sono altrove. E’ quel file che si potrebbe anche perdere senza alcun danno perché l’originale è al sicuro nell’hard disk.

Alias è stato anche il titolo di una fortunata serie televisiva statunitense di Jeffry Jacobs Abrams, prodotta dal 2001 al 2006, basata su una trama che miscelava spionaggio e fantascienza, costruita sull’ambiguità fantasmatica di personaggi che, spesso, erano anche camei di famosi attori presi da altri prodotti dell’industria culturale e inseriti, quasi senza soluzione di continuità, dalle trame originarie nella nuova narrazione. Anche qui apparizioni fantasmatiche neanche determinanti per la nuova trama, tuttavia importanti per creare connessione con altre esperienze “cinefile” del fruitore.

Alias è, dunque, una sorta di Pathosformel plautina che, come nelle trame dello scrittore latino, indica lo scambio e soprattutto come lo scambio sia il generatore del senso, per cui non si esclude che possa persino essere la via d’accesso allo svelamento finale.

Tutto questo risulta ancora più coinvolgente se lo riportiamo all’uso che Gianfranco D’Alonzo ne fa in questa circostanza. Alias, aggiunto a Land of prayer, è il titolo della mostra che ospita negli spazi di una galleria d’arte contemporanea, quanto è nato sul WEB.

Come dire che ciò che è nato nello spazio cosiddetto virtuale è la matrice consistente il cui Alias ora sperimentiamo nel luogo cosiddetto concreto della mostra d’arte.

Non si tratta, però, di ripensare la distinzione tra reale e virtuale, di andare “oltre il senso del luogo”, argomento sviluppato dalla letteratura mediologica[i] e anche acquisito, nonostante il permanere di luoghi comuni, nella nostra esperienza di utenti digitali. Ciò che ora caratterizza l’esperienza che si configura nell’Alias è la mobilità senza direzione del senso. Senza direzione, ovvero, senza geometrie.

E’ questo il punto su cui, semmai, insistere e riflettere. Perché implica una serie di corollari di varia natura che qui si possono solo accennare, rinviando alla variazione successiva di questa esperienza che sarà un libro sull’argomento o meglio – come si vedrà al momento opportuno – costruito dall’argomento stesso.

Tra Land of paryer (LoP) digitale e Alias in galleria non c’è, come si deduce da quanto appena detto, il rapporto tra negativo e positivo, tra progetto e sviluppo, ma il movimento reversibile tra ambienti connessi tra loro senza soluzione di continuità. Per questo motivo, semmai, l’operazione è simile all’Alias televisivo al quale accennavo. I quadri, che affiancano la trasformazione di LoP da dispositivo digitale a videoinstallazione per la galleria, sono a loro volta ridefiniti dal rapporto reciproco con la videoinstallazione.

C’è una riflessione di tipo storico alla quale accennare. Questi quadri – e di conseguenza la videoinstallazione – richiamano alla memoria dello “specialista” quella pittura analitica che rifletteva su se stessa attraverso i gesti, i modi e i supporti della pittura stessa. Una fase che, negli anni ’70 del secolo scorso, era chiamata Nuova Pittura. Giulio Carlo Argan, a proposito, scriveva di una “pittura” basata sulla ricerca fenomenica del suo modo di creare e quindi sicuramente attenzione critica al colore che è la prima sostanza fenomenica ma poi anche al quadro, al telaio, alla parete, all’ambiente, portando così a fondo un’attenzione “critica” al rapporto pittura-quadro, quadro-oggetto, oggetto-spazio.[ii]

Negli anni ’90 questo tipo di analisi risente della mutazione del senso del luogo e del rapporto che abbiamo con lo spazio in conseguenza dei processi di medializzazione dell’esperienza. Arthur C. Danto nel 1996 parlava di valore auto-installativo della stessa pittura riferendosi, in particolare, ad autori come David Reed o Sean Scully, allora ricondotti a formule quali Nuova Astrazione.[iii]  E già nell’insistere sul valore auto-installativo, e “non-puro”, della pittura, Danto spostava notevolmente l’asse del ragionamento dalla critica dialettica degli anni precedenti, per cui la riflessione sul quadro implicava un atteggiamento analitico e distanziante dall’esperienza, ad una partecipazione esistenziale (un agire critico che sostituisce un pensiero critico) quasi senza soluzione di continuità tra diversi format dell’esperienza estetica. Cioè, rispetto alla purezza dei linguaggi differenziati, quindi rispetto allo specifico del formato, si sostituisce l’esperienza più massmediale, inclusiva, del format, ovvero del pacchetto informativo, esteticamente pregnante, che racchiude un diverso rapporto tra fruitore e configurazione del messaggio. Siamo, insomma, in prossimità di concetti estetici come quello di postproduzione di Nicoals Bourriaud[iv] che di lì a breve affronterà il tema del trasferimento di insiemi configurati di senso che non sono più citazioni né analisi distanzianti, o della continuità “rovinistica” processualmente inclusiva e morfologicamente frattalica, come avevo provato a indicare, richiamando Georg Simmel, anche a proposito del nuovo format dell’astrazione anni ’90.[v]

LoP, ora, nasce come un “territorio” complesso che attraversa più piattaforme. E’ un ambiente digitale – aperto – trasformato in un luogo circoscritto. Rispetto anche al prelievo di pacchetti portatori di senso da un habitat all’altro, D’Alonzo sembra piuttosto lavorare sulla cultura convergente. Certo, introducendo questo argomento, Henry Jenkins[vi] si riferiva alla crescita esponenziale di una tematica grazie al crowdsourcing, all’attivismo dei fan messi nella condizione di interagire e quindi, potenzialmente, di condizionare dal basso lo sviluppo di un determinato prodotto simbolico. Rispetto alle “pulsioni culturali” – come le definisce Vincenzo Susca –[vii]  che animano il fenomeno della cultura convergente, LoP è il loro “trompe l’oeil”, cioè utilizza l’attraversamento delle piattaforme, e quindi la cultura convergente, come nuova dimensione dello spazio e del tempo dell’esperienza estetica per lavorarci nell’ottica di quell’analisi grammaticale – rivista e corretta – di cui dicevo poco sopra. In questa direzione, D’Alonzo ha già dato prova in Jo em confesso: l’evento di arte relazionale organizzato nella Lift Gallery di Roma nel 2003, dove le strutture elementari del quadro, la verticale e l’orizzontale, venivano messe a confronto con lo spazio polidimensionale concreto. Una metafisica iconoclasta (come la chiama l’autore[viii], riferendosi implicitamente alla sua originaria attenzione per la pittura di De Chirico), che prendeva le distanze dall’uso riduttivo ed essenzialista del termine astrazione, veniva messa all’opera gettando le regole della grammatica astratta nella realtà quotidiana di un condominio romano, dove l’evento incarnava le geometrie fatte di assi orizzontali e verticali nella concretezza di uno zerbino e di un ascensore.

Il testo sonoro di Gianluca Pezzino, allora rispetto alla verticalità dell’ascensore, come ora rispetto alla verticalità della percezione del quadro, scandisce una linea orizzontale immaginaria ma sensibile.

Quindi dovremmo pensare a Land of prayer in mostra, alla piattaforma digitale che la precede (e l’accompagna), al libro che prossimamente seguirà, come a un tutt’uno che senza soluzione di continuità chiama il fruitore a sentirsi dislocato su più territori connessi, come quotidianamente, di fatto, ci capita.

Ma c’è una cosa “in più”, ora, che in qualche modo complica questa chiave di lettura basata (almeno stando al ragionamento che ho tentato di delineare) sulla virgolettatura dell’esperienza per tradurla in rivelazione cosciente, grazie alla concentrazione estetica della filiera produttiva dell’arte che ben conosciamo. Qui c’è qualcosa che va oltre l’analisi critica. Questa complicazione è la “preghiera” che – non a caso – è il complemento di specificazione di questo territorio. La preghiera complica il tutto perché radica l’analisi linguistica su problemi come quelli del senso, della rappresentazione, della relazione e quindi – in fondo – dello scopo della “Creazione”. Infatti, la proficua confusione che Alias produce tra originale e derivato non è altro che lo specchio dell’ambiguità delle religioni e di tutte le costruzioni simboliche – di tutti i discorsi – finalizzati a creare sistemi di convivenza, comprese le forme più elementari di vita religiosa di cui ci ha parlato Émile Durkheim e che possiamo ritrovare nelle pulsioni estetiche diffuse, ne La ricreazione della società dello spettacolo, a cui Susca ha fatto riferimento commentando la cultura convergente di Jenkins. Tutte queste forme di coesione sociale sono comunque pulsioni centrate su un “noi”, sulla tradizione sempre più velleitaria dei nostri linguaggi, sul nostro modo di costruire relazione e connessione. Ma la creatura può anche annullare il creatore se decide di sparire come unità di misura delle cose, come fonte originaria della parola cessando di metterla in bocca al suo creatore, cessando, quindi, di essere un generatore “automatico” di simboli insensati. L’assenza di soluzione di continuità tra le piattaforme che D’Alonzo propone avvia un lavoro la cui materia prima sono le piattaforme stesse, “vecchie” e “nuove”, dove il senso, come nella preghiera profonda, è generato dall’annullamento che si sperimenta nel momento in cui entriamo nella complessità materiale delle relazioni. Un processo di astrazione senza riduzione e pertanto una “metafisica iconoclasta” poiché distrugge la finzione della riduzione essenzialista trasformandola nella concretezza della funzione, dove simbolo e umiltà materiale dell’oggetto (l’ascensore, lo zerbino e ora la schermata accesa di un computer…) si fondono in un’unica caduta, come percepiamo nella versione digitale di LoP, quando tutti i testi dei vari autori diventano, nell’insieme, un palinsesto polimorfo.[ix] L’insieme genera una realtà che non è la somma dei punti di vista ma il funzionamento stesso di un organismo molteplice che ridimensiona e rimodula tutti.

Se questo produce un soggetto nuovo, una coscienza nuova, è un problema ulteriore che – dal momento che comunque, nostro malgrado, siamo radicati, qui ed ora, nella Storia – ci riguarda, perché ha a che vedere con “il fare il punto” della situazione e quindi ci interroga: anzi, a partire da queste considerazioni, sollecita, inevitabilmente, la nostra attenzione.

 

 

 

[i] J. Meyrowitz, (1985), Oltre il senso del luogo. Come i media elettronici influenzano il comportamento sociale, Baskerville, Bologna, 1995; M. Di Felice, Paesaggi post-urbani. La fine dell’esperienza urbana e le forme comunicative dell’abitare, Bevivino, Milano, 2010.
[ii] G.C. Argan, I colori della pittura, Istituto Italo Latino Americano, Roma, 1975, citato da Filiberto Menna, La nuova pittura, in Franco Russoli (a cura) Al di là della pittura, “L’Arte Moderna”, vol. XIV, Fabbri, Milano, 1978.
[iii] A.C. Danto, Il puro, l’impuro e il non-puro, “Tema celeste. Arte contemporanea”, Autunno, 1996
[iv] N. Bourriaud (2002), Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo, postmedia books, Milano, 2004.
[v] F. Speroni, La Rovina in scena. Per un’estetica della comunicazione, Meltemi, Roma, 2002, pp.108-115.
[vi] H. Jenkins (2006), Cultura convergente, Apogeo, Milano, 2007.
[vii] V. Susca, La ricreazione della società dello spettacolo, nota finale a Jenkins, Cultura convergente, cit., pp. 361-366.
[viii] https://www.gianfrancodalonzo.net/land-of-prayer/jo_em_confesso.html
[ix] https://www.gianfrancodalonzo.net/land-of-prayer/index-lop.html

 

 

 

 

 

 

Marco Vannini

 

Nientificazione: la luce del nulla

 

Sabato 5 ottobre 2013 ore 17.30

Studio d’Arte Contemporanea Pino Casagrande, Roma

https://www.gianfrancodalonzo.net/marco-vannini-nientificazione-la-luce-del-nulla/

 

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