"Chi vede me vede il padre”





Se l’esistenza è interpretazione, gli
esseri umani devono imparare a vivere
senza legittimazioni e valori fondamentali,
vale a dire entro un orizzonte non fondazionale.


G. Vattimo, S. Zabala, Comunismo ermeneutico





Proviamo alcune riflessioni di lato, riflessione in senso letterale cioè riverbero che colpisce e non è al centro, perché dipende da dove ci collochiamo. Riflessione, quindi, come apertura di conversazione che interrompe l’autonomia di ogni costruzione. Quindi Alone più nel senso di nome di cosa – insieme macchia ed aura – che come aggettivo inglese, nonostante che sia impossibile non tener conto dell’ambiguità stessa del titolo, cioè del suo essere contemporaneamente sostantivo e aggettivo in un intreccio, appunto, bilingue. Del resto la riflessione stessa, per esistere, ha bisogno sia della solitudine che del riflesso di qualcos’altro che la distolga dalla dimensione presunta dell’autonomia.

Prima riflessione.
Al vernissage: si sta allestendo o si sta smontando una mostra? La domanda è retorica considerando la completa consapevolezza dell’evento ma non lo è altrettanto alla percezione. La consapevolezza dell’evento è un prerequisito che appartiene all’abitudine. Ciò che poi si vede può non essere in sintonia con un ordine prevedibile: le pareti stuccate ma non levigate, un quadro a terra e più in alto un alone di vernice lucida sul muro che corrisponde al perimetro del quadro appoggiato sotto.
Il numero uno nero, font Bauhaus, che tiene, come fosse una grossa grappetta, le due metà di uno zerbino bianco che fa da tappeto quadrato ma lascia evidente la fessura tra i due pezzi. Sembra un punto di sutura in un taglio chirurgico. Poteva esserci un’unica grande moquette bianca? Può darsi che la soluzione del doppio sia stata del tutto funzionale, dovuta ad esigenze pratiche e che la soluzione della grappetta “uno Bauhaus” sia venuta dopo come soluzione creativa e, inevitabile, citazione piena di implicazioni: l’ Uno, il Bauhaus, il progetto moderno… Però non è detto. E soprattutto non si può dedurre. Il riverbero non consente risposte precise, solo suggestioni che possono aprire altri sentieri. Tornerebbe più utile (?) se volessimo ipotizzare un progetto concentrato sull’aggettivo inglese “alone” immaginare che le due metà della moquette siano state pensate come contraddizione: due non è più uno.
La specularità contiene il doppio in sé ambiguo: è relazione o clonazione? Risposta possibile: è clonazione. Due parti simmetriche possono alludere al doppio come gemellarità o come clonazione. Del resto, il numero Uno nero che tiene le due parti cosa può essere se non un modo per eliminare la differenza, ricomponendola?
Questo sembrerebbe un tentativo abbastanza coerente di interpretazione.
Però non sarebbe stato più semplice allora, se tecnicamente possibile (e suppongo lo sarebbe stato) fare un unico tappeto? Cioè dare la soluzione. Non è dato saperlo, almeno alla percezione, perché questo è un segreto efficace dell’opera d’arte: soluzione di problemi che essa stessa ha sentito la necessità di porre.
Quindi, l’esposizione di dati sotto forma di cose di varia natura potrebbe spostare la nostra attenzione sul processo: su quanto sta accadendo.
C’è una traccia evidente, che si vede rimanendo un po’ lì. Il tappeto bianco dopo pochi istanti è già grigio in molti punti per il calpestio. L’assoluto della luce (è il bianco che contiene tutti i colori) e quindi un’ipotesi costruttiva che tutto comprenda, si va relativizzando per la presenza prevedibile di tanta gente. Lo zerbino sembra svolgere la sua funzione specifica: pulire le suole delle scarpe di tanta gente che probabilmente non si pone nessuna delle domande che sono qui. Anche perché nessuna è necessaria.
In questo caso è l’alone aggettivo inglese che subisce l’Alone sostantivo italiano. L’Uno, l’Assolo si sporca per relazione casuale.
Lo “sporco” è una materia di questo lavoro: il grigio delle pedate come la porporina caduta dal nimbo quadrato (cornice senza quadro) posta in alto su un piccolo basamento. Questa assai meno percepibile: però c’è.
Un nimbo dorato, finto come un attrezzo di scena.
La porporina in basso, accanto al battiscopa, è talmente poca che la noti solo per caso, allontanando ogni illazione simbolica forte. Piuttosto, traccia di un accidente seppur voluto. Questa, tra l’altro, è una delle tracce più dechirichiane, in questa stanza che potrebbe anche richiamare una stanza metafisica. Richiamo probabilmente indotto dal fatto di sapere che l’autore ha dedicato, in altri tempi, particolare attenzione a quel pezzo di storia. Nulla esclude, però, che un sottotesto del genere continui ad innervare questa articolazione degli elementi che ora ritroviamo.
Da dove cominciare a guardare?
Non c’è un punto preciso. Forse ci si potrebbe concentrare su quel piccolo quadrato in alto, rosso. Una specie di punto di fuga. Ma non c’è nessuna subordinazione del resto dell’ambiente a quel punto che quindi resta, anch’esso, isolato come un oggetto-icona. Oppure, cominciare di lato dove due quadrati bianchi diversi nel perimetro sono uno accanto all’altro. Qui la non corrispondenza tra i due è evidente.
Oppure, quella specie di cerchio inscritto nel quadrato: una composizione polimaterica che sembra più una decomposizione di materie troppo morbide per creare confini: una sovrapposizione in corso con conseguente decomposizione dell’una nell’altra.
Non c’è Inizio e questo rende l’Uno Bauhaus ancora più ermetico nonostante l’evidente funzione di raccordo tra le due parti del tappeto. Funzione talmente elementare da riportare il senso nobile del progetto alla cura per la sopravvivenza: l’emergenza del tenere insieme, provvisoriamente, due parti a se stanti.
Di assolutamente chiaro c’è la porta d’ingresso della galleria Gallerati, la scritta con l’invito ad entrare “uno per volta” e un segno totem, una specie di cippo in vetrina, quasi un insert coin, dove la fessura è di nuovo il numero Uno nero sul bianco sporcato dai vari maneggiamenti per posizionarlo.
Quindi, si entra e poi ci si sposta all’interno.
Nella stanza subito dietro l’ambiente principale, un video ripreso da wikipedia insegna come si costruisce un quadrato e più sotto, in posizione simmetrica, due vecchie carte ad olio fanno da ali ad un’opera composta di un quadrato fatto di vetri sovrapposti con all’interno una foglia d’oro. Poco sopra, una lamina di ferro dipinta con antiruggine e un disegno inciso.
Si potrebbe cominciare proprio da qui. Il doppio vetro con la lamina d’oro potrebbe funzionare da chiave d’accesso dell’interpretazione, per riallineare, occasionalmente, tutto il resto.
Io comincio da qui.

Franco Speroni