To Be Opened After My Death

MACRO  Museo d’Arte Contemporanea di Roma

 

# EVENTO

Gianfranco D’Alonzo Garibaldi

TO BE OPENED AFTER MY DEATH

a cura di Franco Speroni

sabato 11 maggio 2019

ore 10:00 – 20:00

CORTILE del MACRO ASILO

dalle ore 17:00 azione con la collaborazione degli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Roma

 

Nell’ambito di  PERMESSO?una serie di mostre sul tema dell’abitare, a cura di Emma Ercoli e Franco Speroni

 

Il ciclo di mostre sul tema dell’abitare intitolato Permesso?a cura di Emma Ercoli e Franco Speroni, che la galleria Gallerati ha ospitato negli ultimi due anni dando spazio a diversi modi di visualizzare l’argomento della rassegna, si conclude con un evento di Gianfranco D’Alonzo Garibaldi nel cortile del MACRO ASILO. Un epilogo diverso ma coerente che smonta gli ingredienti tipici di una mostra per trasferirli in un evento, dentro e intorno ad un’automobile.

Immaginiamo infatti un tema intrigante come “l’abitare”, un titolo forte di origine letteraria come “TO BE OPENED AFTER MY DEATH”, ispirato da I Falsaridi André Gide, una galleria modello white cubedove la rassegna ha avuto corso, un’interpretazione del progetto che fa da testo parallelo in catalogo, una linea grafica coerente per visualizzare il contenuto…. a questo punto, impacchettiamo tutto e mettiamolo in macchina. Che possa essere il caso o la scelta a determinare la soluzione finale dell’automobile poco importa. Non è proprio questo, del resto, il senso dell’abitare? L’instabilità, seppur mascherata, tra nostalgia del passato e desiderio del futuro. Gli oggetti sono le tracce che restano di una transizione che dura quanto la vita. Il “monumento” ironico all’abitare che D’Alonzo mette in macchina per portarlo chissà dove – forse verso West, come cantano i Pet Shop Boys in sottofondo, riproposti in un’azione performativa mischiata tra il pubblico – fa sosta nel cortile del MACRO ASILO, un porto aperto alla discussione, che diventa così non solo il luogo dell’evento ma un altro materiale essenziale per la produzione di significati di cui l’opera è una costellazione.

L’oggetto misterioso, scatola ma anche lettera se guardiamo bene, pensata dall’autore per essere messa sopra un centrino di merletto, è posto con cura nel bagagliaio dell’automobile insieme con altri oggetti, come manifesti e cataloghi, cosicché il monumento all’abitare diventa anche un monumento alla “mostra” scomposta e in fase di trasloco. L’operazione che può richiamare precedenti illustri, a partire dai Mobili nella valledi De Chirico, dalle Valige di Duchamp… acquista una vitalità nuova.

D’Alonzo, infatti, si comporta come l’autore produttore che deve saper utilizzare tutti i mezzi di produzione che si ritrova, anche casualmente, tra le mani (anche la propria firma, alla quale aggiunge il cognome materno Garibaldi) per farli sentire a chi capita. In questo modo, un evento non è tanto un progetto finito ma un catalizzatore di elementi non tutti prevedibili, che aprono a connessioni diverse da parte dei fruitori, per uscire dalla chiusura autoreferenziale dei testi e delle pratiche espositive.

Franco Speroni

Roma 11 maggio 2019       

                        

                            

 

Il mondo è il regno delle cose. Ci sopravvivono. Potrebbero anche durare quanto il mondo dura. Perciò abbiamo inventato il valore del bene culturale: l’oggetto privato, il patrimonio personale che si trasformano in elementi fondanti il processo di civilizzazione, mantenendo però l’ambiguità della doppia natura, privata e pubblica. L’astrazione dalla complessità del reale, che costruisce il valore, inventa un’identità collettiva le cui radici affondano in un sottosuolo privato che non si può rimuovere del tutto. Il magazzino sotterraneo della grande dimora di Citizen Kane di Orson Welles dà bene il senso. Opere d’arte e beni di consumo stanno insieme senza soluzione di continuità perché Tutto è memoria personale. L’imbarazzo dei catalogatori, che vorrebbero distinguere ciò che è “bello” per trasformarlo in un valore collettivo, può risolversi se si accetta di chiamare quell’insieme – assurdo solo per chi non l’ha vissuto – con il nome del suo proprietario: Charles Kane. Tutte quelle cose, infatti, nessuna esclusa, sono l’identità di Kane. Certo è un diario privato, una specie di agenda fatta di cose che funzionano come appunti di una vita e che i catalogatori della bellezza vorrebbero trasformare in una Storia universale, eliminando gli elementi ritenuti incongrui da chi procede per differenze categoriali. Ma ogni distinzione appartiene a quel processo di civilizzazione che tenta di scindere il bene dal male. Al fondo di esso c’è la stessa differenza che Thomas Mann, nelle Considerazioni di un impolitico, fa tra virtù e morale. Il virtuoso ipotizza delle differenze credendo di poter sterilizzare il comportamento privato affinché diventi un modello pubblico; l’uomo morale, al contrario, vede nel “peccato” la complessità che incarna. L’uomo morale per Mann è un “artista” che vede in sé, prima ancora di esprimerla, la sfaccettatura irriducibile ad un quadrato, come il poliedro irregolare accanto alla figura della Melencolia di Dürer, archetipo di quel “progetto infelice” che per Alessandro Mendini diventa il cuore del design, se inteso come arte dell’abitare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Viviamo nella contraddizione di dover leggere le cose, soppesarle, senza tuttavia credere davvero che possiamo comprenderle, poiché siamo noi che apparteniamo a loro. Marcel Duchamp nella sua ultima intervista, invitava a riflettere su come costruiamo la storia (dell’arte) sulla base di poche conoscenze indotte, appunto, dalle opere che restano e che ci fanno comporre un senso molto relativo e soprattutto dipendente da ciò che è rimasto. L’ambiente stesso è, etimologicamente, lo spazio che circonda una cosa. Non esiste in sé, se non in categorie astratte come lo “spazio”. Le cose sono il concentrato delle ossessioni dalle quali dipendiamo e che strutturano il design impuro e perciò vitale. Gli Elettrodomestici spaziali, come li ha chiamati Fabrizio Carli, dalle forme fantascientifiche, capovolgono il rapporto causa-effetto che siamo abituati a vedere come se fossimo noi a tenere banco e non, viceversa, ad essere noi protesi e tutori di dispositivi.

Abitare è l’esperienza quotidiana che facciamo della centralità delle cose, tra i cui interstizi, lasciati liberi, ci muoviamo. Gianfranco D’Alonzo pone un oggetto misterioso nel mezzo della stanza sopra un centrino di merletto ed aggiunge alla sua firma il cognome materno, Garibaldi. Ci sono tutti gli elementi necessari per costruire un monumento all’abitare: un oggetto che crea un ambiente ed una base che lo incornicia. Un accostamento di materiali poveri e affettuosamente sensibili. Il centrino indica il prendersi cura, in sé intenso e debole, analogo per la funzione al basamento di una scultura o alla cornice che dà valore al quadro isolandolo. Se giriamo intorno all’oggetto misterioso vediamo che la scatola di legno colorato (come un “giocattolo” di De Chirico) è anche una busta da lettera. Quindi due contenitori di contenuti da conoscere “solo dopo la morte”, come dice il titolo ripreso dai Falsari di André Gide. Un romanzo antinaturalista, un gioco di specchi tra i personaggi e i generi narrativi che lascia al lettore un insieme di dati da ricomporre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il vero argomento del libro che Edouard, uno dei protagonisti di Gide, vorrebbe scrivere, è “la lotta tra i fatti proposti dalla realtà e la realtà ideale”. Perciò la lettura del diario di gestazione – se ci fosse – dell’Educazione sentimentale o dei Fratelli Karamazov, secondo Edouard, sarebbe più interessante dell’opera stessa. Perché ciò che costruiamo per dare ordine a materiali dispersivi non è altro che una finzione. Sia chiaro che la contrapposizione tra realtà e finzione non ha lo scopo di stabilire la verità, nel senso virtuoso della contrapposizione, richiamando ancora le Considerazioni di un impolitico. Non è, appunto, un discorso politico-progettuale ma è riconoscere la complessità della cosa, di quanto resta. Il diario al posto del romanzo concluso di cui parla Edouard, così come l’oggetto misterioso di Gianfranco sono il segno della nostra struggente, partecipata, estraneità ad ogni forma di senso costruita e compiuta che è lo specchio autentico della nostra alienazione.

Cosa contiene quella lettera, cosa c’è nella scatola? Non lo conosciamo e soprattutto, in vita, non lo sappiamo dire in quanto mittenti, anche perché i destinatari non saprebbero leggerlo e tuttavia un contenuto da esprimere c’è sempre perché lo sentiamo. Possiamo accedervi solo dopo la morte perché solo allora l’insieme frammentato dei simboli che abbiamo usato per dire e per interpretare, finalmente, non serve più. Neanche questo, tuttavia, è un accesso alla verità (nel senso che ad essa diamo nel mondo) ma la fine del bisogno di raggiungerla, che è stato il massimo della finzione per mascherare la nostra volontà di potenza. Per questo la morte è il senso e lo scopo della vita, aldilà di ogni orizzonte religioso, senza tuttavia sottovalutarlo, in quanto fine dell’affabulazione che seppelliva il sentire, fine che già sperimentiamo ogni volta che il nostro quotidiano abitare ci mette di fronte al segreto della cosa banale.

Di fronte al segreto, infatti, la comprensione cede il passo al “prendersi cura di”. Così ogni testo, per essere credibile, può solo farsi una testualità porosa che ne accompagna un’altra con indizi diversi, come nell’arredare: produrre una riflessione parallela che non intenda dare contenuti ma solo significanti aleatori. Tra questi, l’allegra malinconica marcia dei Pet Shop Boys, Go West, fa da sfondo musicale alla mostra per coloro che vorranno accedervi con il proprio cellulare, ripetendo un gesto tanto banale quanto domestico. Un invito coinvolgente ed ironico ad andare dove non sappiamo 

 

 

 

 Un invito coinvolgente ed ironico ad andare dove non sappiamo.

Se lo scopo della vita, attraverso il dolore inevitabile, è quello di accostarci alla rinuncia a sé stessi ma senza annichilimento, bensì imparando a scoprire la maturazione della nostra libertà nell’ abbandono che si compie definitivamente nell’ accoglienza della morte, la Cosa, quanto lasciamo nel Mondo, è il Monumento alla memoria di tutti i nostri fallimenti.

Franco Speroni

 

 

 

 

 

 

G. D’Alonzo Garibaldi_TO BE OPENED AFTER MY DEATH_Pieghevole MACRO

 

 

 

Aggiornamento audiovisivo dell’opera...to be continued…

 

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